martedì 19 febbraio 2013

Torna "The Green Closet", salone di moda etica made in Uk. Nel Regno Unito le vendite di abbigliamento etico a +72%

L'appuntamento per gli appassionati di moda etica è anche quest'anno The Green Closet, un mini-salone dedicato all'artigianato made in UK durante la settimana della moda milanese. In collaborazione con Pitti Immagine e Fiera Milano, quest'anno si svolgerà all'interno del Padiglione 3, edificio Art Dèco in piazza IV Febbraio, dal 23 al 25. Alla terza edizione, è ormai un filo rosso che porta il design inglese nel mercato italiano e internazionale attraverso la vetrina meneghina: «A Milano ci sono buyer italiani e da tutto il mondo, l'anno scorso abbiamo dato grande visibilità a piccole imprese della moda che ora sono commercializzate con successo" spiega Marina Moringer, responsabile Moda e Design di UK Trade & Investment (UKTI) del Consolato Britannico. Dietro ognuno dei marchi che saranno esposti c'è il talento creativo di stilisti che puntano su tematiche ambientali e sociali, le cui collezioni rispondono a uno o più criteri di eco-sostenibilità come il recycling, l'upcycling, gli approvvigionamenti a chilometro zero, le produzioni eco-etiche a basso impatto, le fibre naturali e biodegradabili, l'uso di materie prime e manodopera locali, il minimo spreco, l'aiuto alle comunità e ai paesi marginalizzati. L'attività dell'UKTI consiste anche nel dare consulenza, pagando il servizio in modo estremamente agevolato grazie al supporto del governo inglese, alle aziende di moda e design che vogliono stringere collaborazioni con l'Italia. La Gran Bretagna si conferma trainante nel mercato europeo della moda etica, settore considerato dinamico e fruttuoso anche dalle istituzioni che investono per incentivarlo. La spesa per beni e servizi "green" è cresciuta del 18 % negli ultimi due anni, nonostante la crisi economica.

Nel complesso, il mercato etico nel Regno Unito valeva 4,32 miliardi di sterline nel 2009 rispetto ai 3,65 miliardi di due anni prima, non poco se si tiene conto che la spesa totale delle famiglie è cresciuta nello stesso periodo soltanto dell'1% (dati del Co-operative Bank Ethical Consumerism Report 2010). «Le vendite di abbigliamento etico sono cresciute del 72% raggiungendo 177 milioni di sterline», precisa Marina Moringer. «Nel nostro piccolo The Green Closet dimostra ai compratori della moda italiani che la moda può essere più intelligente, soprattutto quando crea sinergie per diventare più forte». Uno degli slogan della campagna per la crescita del Premier David Cameron, avviata nel 2011, è "Fashion is great", a sostegno di un'industria che dà un contributo di circa 37 miliardi di sterline all'economia del paese, crea lavoro per quasi un milione di persone e offre diversificate possibilità d'impiego ai giovani.

Quest'anno i marchi che espongono a The Green Closet sono: Arianna Cerrito con abiti e accessori di argento riciclato e oro fair-trade, realizzati secondo lo stesso concept eco e riproponendo le medesime linee e stampe; Delada, abiti fatti interamente in UK, il marchio supporta attivamente la comunità locale e Fashion for Good, ente che assiste le donne nel Surrey, e il progetto Give a LIFE, organizzazione no-profit per assistere bambini indigent in Russia; Eribé, celebrato in tutto il mondo per la sua maglieria tipica, con sede nella regione degli Scottish Borders, da oltre 25 anni crea collezioni per uomo e donna; Gabriella Ingram crea a mano borsette di lusso in edizione limitata, abbina sete preziose e antichi merletti con a lastre riciclate di bronzo, rame e argento nichelato e acrilico con pietra naturale; Junky Styling è uno dei brand londinesi più rappresentativi nell'upcycling, riutilizza tessuti in fase sia pre- sia post-consumer, dal 1997 anno da'avvio dell'attività con una boutique sostenibile nell'East London; Made, brand di bijoux africani realizzati nel rispetto dell'etica del lavoro e della cultura locale, ha collaborato anche con grandi nomi come Tommy Hilfiger, Louis Vuitton, Urban Outfitters, FEED Projects, Whistles, Stefanel, Club Monaco; Celina Cheong produce borse in pelle tracciabile, lavorata da concerie locali con metodi etici oppure proveniente da stock in eccedenza; Timur Kim invece si è laureato in Arte della Moda presso il Central Saint Martins di Londra ottenendo immediate successo alla London Fashion Week di febbraio 2012 per l'uso sapiente del denim riciclato.

L'evento è realizzato in partnership con Oxfam, a sostegno della sua attività di charity internazionale, e nel corner dedicato saranno presentati due prodotti speciali: il braccialetto The Golden Circle di Delfina Delettrez Fendi, creato con oro etico di Goldlake, gruppo che opera in Honduras e The Phoenix Bag prodotta da Ballin, in collaborazione con la Domus Academy di Milano utilizzando pellame e tessuti riciclati.


lunedì 18 febbraio 2013

Christian Dior: biografia dello stilista che amava le donne

Il leggendario stilista Christian Dior è nato nel nord della Francia, in un paesino di nome Granville nel lontano 1905. Il fashion designer icona del Novecento, diviene noto al grande pubblico però solo nel 1947, in una Parigi che inizia lentamente ad alzare la testa dopo gli anni della seconda guerra mondiale. Anni che avevano significato spesso per la donna povertà e restrizione, sofferenza e sobrietà, ma un arcobaleno stava spuntando mestamente all’orizzonte. Un arcobaleno con un nome proprio: Christian Dior. Lo stilista che amava le donne.
Al contrario dello stile Chanel, questo stilista comincia a disegnare abiti iperfemminili, dallo sguardo retrò per l’epoca, ovvero che si ispira alla moda francese delle donne nobili di fine Ottocento. La prima collezione di moda di Dior, la “Ligne Corolle” o “New Look”, come l’hanno poi ribattezzata i giornalisti di moda di tutto il mondo, fu l’inizio della rivoluzione di stile portata avanti ancora oggi da questa emblematica maison.
Nuove linee e volumi, nuove le silhouette e le lunghezze, spalle rotonde e morbide, e gli abitini che poi sono diventati un must, dal busto sagomato ed aderente e dalla vita strettissima, con gonne a forma di campana di materiali ricercati e lussuosi. All’inizio della carriera del maestro, furono in molte tra le suffraggette e le attiviste femministe a storcere il naso. Se con Coco Chanel la donna aveva conquistato faticosamente passi avanti nella libertà di stile, ora sembrava di essere tornati pericolosamente indietro. Ma lontana era la verità, con la moda di Dior la donna guadagnava passi da gigante in eleganza e fascino. Altri non capivano la sontuosità dei capi d’abbigliamento e degli accessori Dior, in un’epoca ancora in bilico.
In contrapposizione proprio a Chanel, Dior afferma un modello di donna romantica e femminile all’apoteosi, che predilige il lusso e la raffinatezza, la classe alla comodità. Le collezioni si sussuegono negli anni, strutturate e definite, capi come opere d’arte altamente modellati nelle lavorazioni e nei tessuti. Fino alla linea di moda più leggera e giovanile del 1954, semplice e chic alla maniera di Dior. La collezione porta il nome di un fiore delicato il Mughetto.

Christian Dior era il secondo di cinque figli nati da Alexandre Louis Maurice Dior, produttore di fertilizzanti di grande successo, e sua moglie, Isabelle. Quando era un ragazzo, la famiglia Dior si trasferì a Parigi, dove il piccolo Dior trascorse la sua giovinezza. Da ragazzo era appassionato di arte e con interesse a diventare un architetto, ma dopo aver ceduto alla pressione dal padre nel 1925, si iscrive all’École des Sciences Politiques per iniziare gli studi in scienze politiche, con la promessa di diventare un diplomatico (sì, non ha mai studiato moda).
Dopo la laurea nel 1928, tuttavia, Dior apre una piccola galleria d’arte, dopo avere chiesto un prestito al padre. In pochi anni la galleria Dior diventa importante nel panorama parigino, accogliendo le opere di artisti come Georges Braque, Pablo Picasso, Jean Cocteau e Max Jacob. Dior viene costretto a chiudere la galleria nel 1931, un anno difficile per lo stilista, in cui morirono sia entrambi i genitori che il fratello maggiore, e poco dopo il crollo finanziario del business del padre fu inevitabile.
Dopo la chiusura della sua galleria, Dior comincia a sbarcare il lunario vendendo i suoi disegni di moda, e nel 1935, ottiene un lavoro come illustratore presso la rivista Figaro. Diversi anni dopo, Dior viene assunto come assistente di disegno dello stilista Robert Piguet.
In guerra va a servire nel fronte del sud di Francia. Nel 1940, torna a Parigi, dove fu presto accolto dal sarto Lucien Lelong. Nel 1957, alcuni mesi dopo essere comparso sulla copertina della rivista Time, Christian Dior si reca in Italia per le vacanze, nella città di Montecatini. Il 23 ottobre 1957, proprio qui in Italia, soffre del suo terzo attacco di cuore e muore all’età di 52 anni.




Twitter e Facebook, svolta eCommerce: sui social si fa shopping e si invia denaro

I social media evolvono: gli spazi di conversazione globale dove scambiare commenti sono anche territori per iniziare transazioni. La startup inglese Azimo scommette sulla platea di Facebook per abilitare trasferimenti di denaro anche fra gli iscritti del social network che ha raggiunto un miliardo di utenti. Chi ha un profilo nella rete sociale online può versare una somma di denaro a un'altra persona mediate la piattaforma di Azimo, esterna a Facebook.
I contatti sono nel social network, ma il pagamento avviene in un altro spazio online. Il limite iniziale è di 899 sterline. Se da tempo il social network più grande del mondo ha aperto vetrine di ecommerce, per Twitter le vendite online sono ancora ai primi passi: l'accordo con American Express consente agli utenti del microblog di acquistare con un tweet e un hashtag predefinito, dopo aver associato il proprio profilo a una carta di pagamento. Ma al momento si tratta di una sperimentazione operativa soltanto per alcuni prodotti. In precedenza anche Chirpify ha avviato un'iniziativa di ecommerce con Twitter: semplificando, per comprare occorre rispondere con la parola buy a un utente di cui si è follower.
L'Africa è un'originale sorgente di innovazione per i pagamenti in mobilità e il mobile banking mediante i cellulari. La storia di M-Pesa in Kenya ha fatto scuola: era un progetto secondario di un operatore telefonico locale che ha trovato presto un'adozione di massa grazie al passaparola. Gli utenti non sono più stati obbligati a percorrere grandi distanze sulle strade, ma hanno trasferito in tempo reale somme di denaro con i cellulari, distribuite poi in contanti sul posto attraverso i chioschi nei villaggi delle aree rurali.
Attorno a M-Pesa che ha raggiunto 15 milioni di utenti sono fiorite altre iniziative, come l'ecommerce. E ha aperto la strada a servizi simili nell'Africa subsahariana: secondo le stime di Gsma le transazioni attraverso dispositivi mobili hanno aggiunto 32 miliardi di dollari all'economia della regione e un'occupazione di 3,5 milioni di persone a tempo pieno. Hanno conquistato terreno inoltre Easypaisa in Pakistan e Mtn Mobile Money in Ghana. Fundamo, invece, arriva dal Sudafrica: è una piattaforma che può abilitare transazioni fra persone. La startup è stata tra le prime a puntare sull'espansione dei dispositivi mobili e ha ampliato i confini oltre l'Africa.
Anche PayPal abilita i trasferimenti di denaro tra utenti: per l'anno in corso prevede di raddoppiare il fatturato globale e di arrivare a gestire tra il 75% e l'80% delle transazioni sul mercato online di eBay. Ha un'applicazione software per iOs o Android. Ad accelerare l'evoluzione dei pagamenti sono le tecnologie Nfc, integrate ad esempio in smartphone e tablet: attraverso applicazioni software operative come portafogli elettronici (mobile wallet) e associate a carte di pagamento, fisiche o virtuali, per spese di piccoli importi (micropagamenti).


fonte: http://www.ilsole24ore.com/art/tecnologie/2013-02-13/facebook-twitter-altri-quando-193556.shtml?uuid=AbcinBUH

lunedì 11 febbraio 2013

Greenpeace, Valentino è la griffe più “verde”

La griffe ”eco” dell’alta moda è quella di Valentino. Il Valentino Fashion Group è infatti l’unico brand a impegnarsi per raggiungere gli ambiziosi obiettivi deforestazione zero e scarichi zero nelle propria produzione, stando a quanto emerge dalla classifica ”The Fashion Duel” realizzata da Greenpeace per valutare le maison in base alla trasparenza delle filiere produttive, le politiche ambientali in atto e la disponibilità a un impegno serio per dire no alla deforestazione e all’inquinamento.  

La classifica è il risultato di un questionario inviato da Greenpeace a 15 case di moda italiane e francesi con 25 domande su tre temi ambientali: politiche per gli acquisti della pelle, della carta per il packaging e produzione tessile, per scoprire cosa fa l’alta moda per evitare che i suoi prodotti non siano responsabili della deforestazione e dell’inquinamento delle risorse idriche del Pianeta.  

Ad accompagnare il questionario, il simbolico guanto verde della sfida lanciata alle aziende perché si impegnino a proteggere le ultime foreste e a non intossicare il pianeta con sostanze tossiche. 

La sfida è stata lanciata dall’associazione ambientalista nell’ambito della campagna che ha come testimonial Valeria Golino, protagonista del video dell’iniziativa (www.thefashionduel.com). 

«Marchi come Chanel, Prada e Dolce & Gabbana sono nomi riconosciuti a livello mondiale e da oggi hanno l’opportunità di dettare il vero nuovo trend del settore: tutelare il nostro Pianeta - afferma Chiara Campione, responsabile del progetto The Fashion Duel di Greenpeace Italia - A questi brand chiediamo di impegnarsi da subito per eliminare le sostanze chimiche pericolose dalla loro filiera produttiva e mettere in atto delle misure concrete per evitare il rischio di contaminazione da fenomeni come la deforestazione. Se uno dei leader dell’alta moda come Valentino l’ha fatto, dagli altri non ci aspettiamo di meno».  

Dolce&Gabbana, Chanel, Herme’s, Prada, Alberta Ferretti e Trussardi non hanno ancora risposto al questionario, ma i consumatori possono spingerli a farlo firmando la petizione sul sito.  

La nuova iniziativa si aggiunge alla campagna Detox lanciata nel 2011, e che ha già convinto 15 tra i più popolari marchi d’abbigliamento a eliminare ogni rilascio di sostanze chimiche pericolose per l’intera catena di produzione entro il 2020. Greenpeace chiede alle aziende di firmare l’accordo sugli allevamenti in Amazzonia (il Cattle Agreement) e di impegnarsi per una politica per l’acquisto di carta e produzione di packaging a Deforestazione Zero.  



venerdì 8 febbraio 2013

Greenpeace sfida 15 case d'alta moda

Proteggere e salvaguardare il nostro pianeta dovrebbe diventare una priorità di tutti, ma molto spesso per noia, dimenticanza o poca attenzione non ci si rende effettivamente conto di cosa producano le nostre azioni. Riciclare una bottiglia di vetro, dividere la carta dalla plastica, ormai è diventata consuetudine in molte case italiane, ma purtroppo non basta. Gli oggetti, che ci circondano e che indossiamo hanno da raccontare storie che non vorremmo mai sentire.
Sono stata contattata da Greenpeace per una campagna di sensibilizzazione che mostra le politiche ambientali adottate da 15 case d’alta moda, per scoprire se i loro prodotti di lusso siano o meno contaminati da sostanze tossiche o causa della deforestazione: 25 domande scomode per capire cosa fanno e cosa non fanno per tutelare l’ambiente.
Politiche per gli acquisti della pelle: per scoprire se la pelle usata dalle case d’alta moda proviene dagli allevamenti di bestiame che deforestano l’Amazzonia (milioni di ettari di foresta vengono tagliati a raso e incendiati).
Politiche per gli acquisti della carta: per svelare se la carta dei packaging di lusso è prodotta da multinazionali come quelle che in Indonesia distruggono le foreste pluviali e l’habitat delle ultime tigri di Sumatra (stanno mandando al macero il patrimonio delle foreste pluviali, trasformandolo in scatole e sacchetti per i nostri acquisti).
Produzione tessile: per controllare se la produzione e lavorazione dei tessuti d’alta moda utilizza sostanze tossiche che potrebbero compromettere le risorse idriche globali (In Cina, Messico e altre regioni del Sud del mondo, l’uso di sostanze chimiche tossiche nei cicli produttivi dell’industria tessile compromette gravemente la salute pubblica e le risorse idriche globali).
Su The Fashion Duel - sulla base delle risposte date al questionario dalle 15 case di alta moda – è stata elaborata una classifica consultabile online, che dà la possibilità agli utenti di partecipare alla campagna di sensibilizzazione chiedendo direttamente alle case d’alta moda di “ripulirsi”.
La sfida è stata lanciata a: Chanel, Valentino, Ermenegildo Zegna, Versace, Trussardi, Salvatore Ferragamo, Dolce & Gabbana, Prada, Roberto Cavalli, Giorgio Armani, Alberta Ferretti, Louis Vuitton, Dior, Hérmes e Gucci.




H&M presenta i nuovi store con il marchio lusso, & Others Stories

& Other Stories è il nuovo nato del gruppo H&M e si appresta a sbarcare in tutta Europa con i suoi flagship store  Barcellona, Berlino, Copenhagen, Londra, Milano, Parigi e Stoccolma ospiteranno, a partire dalla prossima primavera. In contemporanea all'apertura dei monomarca verrà lanciata la prima collezione, la Primavera-Estate 2013 appunto, che oltre alla linea prêt-à-porter offirà al pubblico femminile scarpe,borseaccessoriprodotti di bellezza e lingerie.
Verranno presentate 6 collezioni all'anno, al fine di avere sempre prodotti nuovi in vendita. Ci saranno 4 linee fisse: chic, romantica, sensuale/rock e minimal, per assecondare le diverse esigenze e dare la possibilità agli stilisti di esprimersi. Prevedono anche l'introduzione di una linea beauty e accessori.




giovedì 7 febbraio 2013

Il futuro della moda italiana


La fase peggiore della recessione non si è ancora conclusa a anche il fashion system ne risente.
Le prospettive dell’industria italiana della moda per il 2013 non sono però così fosche. La principale buona notizia riguarda l’export: suimercati in crescita la competitività della moda made in Italy resta molto elevata.
Le previsioni indicano infatti che quest’anno si raggiungerà il livello di export (in valore) più alto di sempre, superando finalmente il precedente massimo del 2000. Nello specifico l’export verso i Paesi extra-UE supererà in valore quello verso i Paesi UE.
Vediamo nel dettaglio quali sono stati nel 2012 i Paesi più dinamici per quanto riguarda la vendita dei prodotti del settore moda. Negli Usa le vendite al dettaglio di abbigliamento ed accessori mantengono un buon passo, +6,0% nei primi 10 mesi, con una crescita più sostenuta nell’abbigliamento femminile (+8,8%). In Cina le vendite al dettaglio di abbigliamento sono cresciute del 18,2% nel periodo gennaio-novembre.
Se il commercio estero della moda tricolore è stato per lungo tempo eurocentrico, nell’ultimo quinquennio la geografia dell’export italiano ha cominciato ad evolversi rapidamente. Il boom del mercato russo e di quello cinese ha trovato pronte le imprese italiane che hanno allargato l’orizzonte ai BRIC (Brasile, Russia, India, Cina), ma anche a nuovi mercati emergenti come Messico, Turchia Indonesia.
Nei primi 9 mesi del 2012, l’export verso i BRIC è aumentato del 13,4%, quello verso i BRIC+ 3emergenti dell’11,2%, a fronte di soltanto +1,2% del resto del Mondo.
Il futuro della moda nostrana saluta il Vecchio Continente.

mercoledì 6 febbraio 2013

Scatto dell'export di moda verso gli Usa (+21%)

Soprabiti fluo, giacche leggere, sahariane nei toni pastello, blazer stampati: dalle vetrine scenografiche dei department store fanno capolino le collezioni primaverili di alcune tra le più note griffe italiane. Per strada, tra i grattacieli e gli inconfondibili taxi gialli, c'è invece chi si ripara dal freddo sfoggiando cappotti, piumini e mantelle. Anche in questo caso made in Italy. Chi vede nei Bric e nel loro interesse crescente verso la moda italiana la soluzione - o, almeno, una delle soluzioni - alla crisi dei consumi che affligge l'Europa, sottovaluta gli Stati Uniti: quella sopra descritta non è Pechino né Hong Kong né, tanto meno, San Paolo. Si tratta di New York, citata come simbolo di un mercato, quello americano, che per l'Italia rimane una delle principali destinazioni export. 
A confermarlo, come sempre, sono le cifre. Tra i dati Istat elaborati da Sistema moda Italia - relativi al commercio estero tra Italia e Usa nel settore tessile-moda tra gennaio e ottobre 2012 - spicca proprio la voce outerwear. Nonostante la forza dell'euro sul dollaro, i numeri in sensibile crescita tracciano un quadro all'insegna della competizione che vede un vero e proprio testa a testa tra uomo e donna: l'export di vestiario esterno maschile nei primi 10 mesi del 2012 è aumentato del 21,9% attestandosi sui 261,5 milioni di euro. Una cifra di poco superiore a quella relativa alle esportazioni nel vestiario esterno femminile, pari a 260 milioni di euro, che, tuttavia, ha segnato "solo" un +11,3%.
LA LEADERSHIP DELL'ABBIGLIAMENTO MASCHILE
Che sia per la cura del dettaglio, per il fit impeccabile o per i materiali sofisticati poco importa: quel che conta è che, nei primi dieci mesi dello scorso anno, sempre più uomini americani hanno scelto di indossare giacche, giubbini, pantaloni e cappotti made in Italy. Lo stesso hanno fatto le donne, sebbene con un incremento minore rispetto allo stesso periodo del 2011. 
Allargando il focus sulle esportazioni dell'intera industria tessile-abbigliamento, i dati forniti da Smi disegnano uno scenario positivo: tra gennaio e ottobre 2012, nonostante la crisi economica, il mercato americano si è confermato una destinazione privilegiata per il made in Italy, con un incremento dell'export del 20,9% per un totale di 1.035 milioni di euro. Sempre nello stesso periodo, il surplus della bilancia commerciale è salito del 21,9% attestandosi a 994 milioni; il valore delle importazioni, infatti, è stato di 40,7 milioni di euro. 
Se si analizzano i singoli segmenti del settore, balza agli occhi l'andamento positivo della maglieria: nel gennaio-ottobre l'export della maglieria esterna maschile è balzato a 79,8 milioni di euro segnando un +38,7%; anche le esportazioni della maglieria esterna femminile sono cresciute a doppia cifra: +18,4% per un valore di 103 milioni. Performance positive anche per la camiceria femminile (+26,4%) e per i costumi da bagno da donna (+48,3%), per la maglieria intima maschile (+36,5%) e per la cravatteria (+21,5%).
UN FEELING DURATURO
Quella tra l'Italia e gli Stati Uniti, quando si parla di moda, è una relazione ormai duratura: da un lato lo stile del Belpaese preso a modello dagli americani, grandi estimatori della sartorialità made in Italy, come dimostrano i tanti uomini politici che, nel corso degli anni, si sono fatti confezionare abiti e cravatte su misura, tra cui John F. Kennedy e Bill Clinton; dall'altro gli stilisti italiani che hanno visto negli Usa e in Hollywood il bacino ideale cui attingere per farsi conoscere a livello globale, grazie ad attrici, attori e celebrità varie. 
Un trend, quello che porta i designer italiani in America, che continua tuttora: Alberta Ferretti ha presentato all'inizio di gennaio la sua collezione pre-fall 2013 a Los Angeles, mentre la sfilata del marchio Philosophy si terrà nell'ambito della New York Fashion Week: «Sei anni fa ho deciso di portare a New York la sfilata Philosophy - dice Alberta Ferretti - e proprio a New York ho scelto Natalie Ratabesi, nuovo direttore creativo della linea, che negli Usa ha vissuto e lavorato per 10 anni». 
Sebbene l'americacentrismo possa sembrare il leitmotiv delle ultime edizioni della settimana della moda New York, non mancano le presenze italiane. In calendario alla Nyfw A-I 2013-14 c'è anche Diesel Black Gold, label dell'universo Diesel in passerella il 12 febbraio, ormai una presenza fissa all'interno del calendario newyorkese.
Il 9 febbraio, invece, Bulgari inaugurerà all'interno della boutique sulla Fifth Avenue la prima Serpenti Gallery, dedicata alla collezione Serpenti e alla sua storia. Durante l'evento la maison presenterà il volume "Bulgari: Serpenti Collection" edito da Assouline, mentre Brooks Brothers, marchio storico controllato da Claudio Del Vecchio, presenta le collezioni main e Black Fleece, disegnata da Thom Browne.
IL SISTEMA ITALIANO COME HUB CREATIVO
E proprio da uno dei department store più iconici d'America, Saks Fifth Avenue, arriva la conferma del ruolo strategico delle firme italiane sul mercato statunitense. «L'Italia è un paese di vitale importanza per noi - racconta a Moda24 Ron Frasch, presidente di Saks Fifth Avenue - non solo per quanto riguarda i marchi italiani, ma anche per quanto concerne i brand che producono in Italia o che impiegano tessuti italiani. Il sistema moda, e noi con esso, è estremamente dipendente dall'Italia e oserei dire che, senza il contributo delle vostre aziende, questa industria non esisterebbe così com'è oggi».
A dimostrazione di ciò Ron Frasch e il suo team di buyer si fermeranno a Milano per una settimana, in occasione di Milano moda donna: «Sebbene oggi il ruolo di leader tra le capitali mondiali della moda sia conteso tra New York, Londra, Parigi e Milano - continua Frasch - penso che il sistema moda italiano possa guadagnare nuova energia proponendosi come hub creativo agli occhi dei giovani talenti internazionali».
Il team di Saks Fifth Avenue, infatti, sarà alla Milano fashion week anche alla ricerca di designer emergenti: «Destiniamo una parte del budget al supporto dei giovani - chiosa il presidente - con uno sguardo a lungo termine: vogliamo dare loro la chance di studiare i consumatori americani, ma anche di sbagliare perché è così che s'impara. Tra gli italiani mi piace molto il lavoro di Tommaso Aquilano e Roberto Rimondi».



martedì 5 febbraio 2013

PRIMA UDIENZA PER LA CAUSA GALLIANO-DIOR

John Galliano è uscito sorridendo dal tribunale di Parigi dopo aver vinto in primo grado la causa contro i suoi ex datori di lavoro, la Maison Dior.
L'udienza è durata più di tre ore e che ha avuto inizio dopo che il Tribunale ha accettato di ascoltare le accuse di Galliano, nonostante l'avvocato della Maison abbia contestato la richiesta presentata sostenendo che il caso dovrebbe essere esaminato da un tribunale di commercio e non da un tribunale del lavoro, vista la natura complessa dei rapporti che legano Galliano ai due brand (Dior e John Galliano ndr)
il giudice si è schierato dalla parte di Galliano e ha respinto la richiesta di Dior, ma la Maison francese ha 15 giorni di tempo per contestare la sentenza e, nel caso, questa scelta farà protrarre la causa ancora più a lungo.  Al momento nè Galliano nè le Maison hanno rilasciato dichiarazioni.






Parigi, dopo 200 anni anche le donne possono mettere i pantaloni

Parigi, dopo 200 anni anche le donne possono mettere i pantaloni

Chi di voi è stato a Parigi avrà visto più volte file di donne aggirarsi sui boulevard in giacca e pantaloni. Le madame in questione fino a ieri risultavano fuori legge. Sembra incredibile, eppure era in vigore una ordinanza del 17 novembre 1800 che vietava alle ragazze di indossare abiti considerati maschili



Tacchi o ballerine che siano. Chi di voi è stato a Parigi avrà visto più volte file di donne aggirarsi sui boulevard in giacca e pantaloni. Ebbene, le madame in questione fino a ieri risultavano fuori legge. Anche se molto probabilmente nessuna di loro lo sapeva. Sembra incredibile, eppure in Francia fino a 48 ore fa era in vigore una legge del 17 novembre 1800 che vietava alle ragazze di indossare abiti considerati maschili. Come i pantaloni, appunto. A stracciare l'antica legge ci ha pensato la giovane ministra per i Diritti delle donne (si chiama proprio così) e portavoce del governo francese, Najat Vallaud-Belkacem.
Trentacinque anni, Vallaud-Belkacen è il ministro più giovane dell'esecutivo guidato da Francois Hollande. La si vede spesso, anzi quasi sempre, in giacca e pantaloni. Forse per questo, proprio lei, rispondendo a un'interrogazione parlamentare sulla Gazzetta ufficiale del Senato, ha scritto nero su bianco che l'antica regola risalente al 16 brumaio dell'anno IX è da ritenersi non più in vigore, perché «caduta in desuetudine» e «incompatibile con il principio della parità tra i due sessi».  
Firmata dal prefetto, l'«ordinanza concernente il travestimento delle donne» D/B 58 obbligava le madame ad «abbandonare gli abiti del proprio sesso solo per motivi di salute. Tutte le donne che, dopo la pubblicazione della presente ordinanza, si travestiranno da uomo senza aver sbrigato le formalità prescritte lasceranno intendere di avere la colpevole intenzione di abusare del loro travestimento». La pena prevista era il carcere immediato.
La norma era in aperto contrasto con i rivoluzionari sanculotti, che rivendicavano il diritto di portare i pantaloni fino alle caviglie per distinguersi dai nobili in culottes, i mutandoni che si fermavano sotto al ginocchio. Una donna con i pantaloni era dunque sinonimo di sovversione. Durante tutto il Diciannovesimo secolo, più volte le parigine hanno cercato, ma senza successo, di ottenere l'abrogazione della rdinanza. Al massimo, si poteva ottenere una deroga per motivi di lavoro. Alle giornaliste, ad esempio, era consentito l'uso dei pantaloni. Solo dopo la Belle Epoque e l'arrivo delle nuove mode, la D/B 58 è caduta in disuso, senza essere comunque abrogata. 
La norma era stata modificata in senso più permissivo in due occasioni, nel 1892 e nel 1909, quando fu consentito alle donne di portare i pantaloni senza preventiva autorizzazione nel caso in cui «impugnassero il manubrio di una bicicletta» e «le redini di un cavallo». L'episodio più emblematico nel 1972, quando la giovane deputata Michèle Alliot-Marie venne bloccata all'ingresso del Parlamento perché indossava un paio di pantaloni.
L'obiettivo della proibizione, ha dichiarato la giovane ministra di origini marocchine, consisteva «nel circoscrivere l'accesso delle donne a determinati incarichi o occupazioni».  È questa l'ultima battaglia della giovane ministra. Sua è la proposta di legge antiprostituzione, che punta alla penalizzazione dei clienti. Suo è un nuovo progetto di legge contro le molestie sessuali. Come si legge su Le Parisien, per la piena uguaglianza c'è ancora molta strada da percorrere. L'articolo L. 120-2 del codice del lavoro permette, ad esempio, al datore di lavoro di imporre la gonna alle proprie dipendenti, purché ne giustifichi «chiaramente» le motivazioni.
L'abbigliamento femminile resta un tema molto dibattuto nella politica francese. Nel maggio scorso aveva fatto discutere la 37enne ecologista Cécile Duflot, ministra dell'Edilizia, che si era presentata in jeans alla prima seduta del Consiglio dei ministri. Questa ipotesi nella norma del 1800 non era stata neanche presa in considerazione. 






lunedì 4 febbraio 2013

Presentazione why not?

In questo blog potrete trovare tutte le informazioni, news ed eventi legati al nuovo brand biologico di abbigliamento Made in Italy, anzi, Made in Veneto WHY NOT?
Si tratta di una nuova linea fashion che copre dai neonati agli adulti tutto in cotone organico eco sostenibile che arriva direttamente dalle piantagioni africane in Tanzania coltivato senza pesticidi o sostanze chimiche, quindi completamente naturale al contatto con la pelle.
Adatto a tutte le persone, soprattutto, non provoca allergie o irritazioni, in più promuove e aiuta le popolazioni africane del luogo.

www.whynotshirt.com